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Durante un collegamento su Skype, qualche giorno fa, l’intervistatrice mi ha spiazzato chiedendomi cosa vedevo dalla mia finestra. Con quella domanda inattesa, in uno spazio di parole e di
idee irrompevano cose concrete cui non avevo pensato: gli alberi, e oltre quelli le montagne, un cielo azzurro senza scie d’aerei. Allo stesso modo un anno fa, con l’avvento del Covid, in
una vita di abitudini consolidate entrava l’imprevisto, la sferzata di vento che rovescia castelli di carte. Tutto cambiava. Google Maps mi dice che nel 2019 ero stato a Parigi, a Norimberga
e ad Hannover, a Mosca e a Pechino. La stessa mappa evidenzia che nel 2020 non sono mai uscito dai confini della mia regione. Eppure, se esistesse una mappa dei sentimenti, mi direbbe che
in quest’anno trascorso dall’inizio della pandemia ho viaggiato in molti luoghi, ho fatto esperienza di territori sconosciuti. Com’è successo a tutti: la pandemia è la prima esperienza
condivisa dell’umanità dalla fine della Seconda guerra mondiale. UNA MINACCIA GLOBALE HA RIPORTATO NELLE NOSTRE VITE PAURE CHE PER I NOSTRI ANTENATI, MA ANCHE PER I NOSTRI GENITORI, ERANO
ATAVICHE E CHE NOI AVEVAMO DIMENTICATO, CREDENDOCI AL SICURO Una minaccia globale ci ha fatto riscoprire il valore di cose apparentemente semplici come l’acqua corrente e il pane fatto in
casa, la luce elettrica senza interruzioni, la voce di un amico al telefono. Ha riportato nelle nostre vite paure che per i nostri antenati, ma anche per i nostri genitori, erano ataviche e
che noi avevamo dimenticato, credendoci al sicuro. È stato un anno sospeso, e tanti l’hanno visto come un anno rubato, sottratto al ciclo normale di lavoro e vacanze, di aperitivi e cene con
gli amici e di programmi per il futuro. La malattia ha sparigliato le carte. Abbiamo imparato che niente può darsi per scontato: che, come scriveva il poeta Robert Burns, «i più studiati
piani dei topi e degli umani / van spesso di traverso». È INDISPENSABILE PENSARE CHE UN FUTURO C’È SEMPRE E CHE DOVREMMO CERCARE DI RENDERLO MIGLIORE, VISTO CHE È IL POSTO IN CUI TUTTI
ANDREMO AD ABITARE Le nostre anime sono state percosse. Alcune si sono temprate, altre, più fragili, si sono spezzate. Fin da subito non mi avevano convinto slogan come «andrà tutto bene» o
«ne usciremo migliori». Tra le parole eroismo ed egoismo c’è di mezzo una sola consonante. Forse è più onesto dire «ne usciremo cambiati». La pandemia lascerà cicatrici profonde su tutti.
Abbiamo perso genitori, amici, maestri. Coccolati com’eravamo da un senso d’illusoria sicurezza, siamo stati catapultati in un mondo di paura, dal futuro incerto e dalle molte privazioni;
anche se, come mi dico spesso, non siamo Anna Frank e non abbiamo vissuto i 900 giorni d’assedio di Leningrado. La sensazione di precarietà dovrebbe insegnarci a dar valore alle cose
importanti. Viviamo in un mondo fragile, e ora lo sappiamo. Siamo spesso governati male, e ora sappiamo che di cattiva politica si può morire. Non abbiamo più alibi per non sforzarci di
diventare migliori. Nel 2020 ho scritto un romanzo in cui cerco d’immaginare il mondo che verrà, il mondo guarito. Per me è indispensabile pensare che un futuro c’è sempre e che dovremmo
cercare di renderlo migliore, visto che è il posto in cui tutti andremo ad abitare. All’inizio, nei mesi più duri del lockdown, non riuscivo a leggere e tantomeno a scrivere. Mi sembrava
futile. Poi col tempo ho imparato la lingua della pandemia, sono riuscito a capire ciò che cercava di dirmi. Mi diceva che la vita, diventando più fragile e incerta, si rendeva più preziosa.
ORA LA MORTE SI È FATTA PIÙ CONCRETA E PRESENTE... MA, ALMENO PER ME, HA RESO PIÙ INTENSA LA VITA. COME DICE IL SALMO 90, «INSEGNACI A CONTARE I NOSTRI GIORNI E GIUNGEREMO ALLA SAPIENZA DEL
CUORE» Tullio Avoledo Anni fa ero stato a un funerale, un 31 dicembre, e alcuni dei presenti discorrevano sottovoce di dove sarebbero andati a cena, o a ballare, di lì a poche ore. Eravamo
gli stupidi Eloi di Wells, immersi in un eterno presente senza preoccupazioni. Ora la morte si è fatta più concreta e presente, con le lunghe file di camion militari che trasportavano agli
inceneritori i morti di Bergamo, e con i necrologi che occupano i giornali e i muri delle nostre città. Ma, almeno per me, ha reso più intensa la vita. Come dice il salmo 90, «insegnaci a
contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore». Mi viene in mente una parabola che Buddha un giorno raccontò ai suoi discepoli, su un uomo che correndo per sfuggire a una
tigre cadde in un dirupo. Si salvò aggrappandosi a una pianta. Tremando, guardò in basso e vide che un’altra tigre lo aspettava di sotto. D’un tratto apparvero due topi, che presero a
rosicchiare la vite. L’uomo allora notò accanto a sé una fragola. Tenendosi aggrappato alla vite, allungò l’altra mano a cogliere quella fragola. «Com’era dolce», concluse Buddha. Ho
ascoltato poca musica, durante il lockdown. Fra quel poco c’è un compositore inglese del Seicento, Tobias Hume. Era un soldato di ventura e un virtuoso della viola da gamba. Componeva musica
potente e cupa, assolutamente fuori tempo in un’epoca che prediligeva i virtuosismi del liuto. Di lui un critico ha scritto che la sua musica ha la forza e l’intensità della vita e
dell’amore prima della scoperta della penicillina. Vorrei davvero che un po’ di quella forza, che nasce dalla consapevolezza della fragilità umana, entrasse nei nostri cuori, portandovi la
saggezza necessaria per gioire della vita e per non aver paura d’immaginare e costruire un futuro migliore. * Tullio Avoledo, 63 anni, è uno scrittore friulano. Il suo ultimo romanzo, «Nero
come la notte», Marsilio, ha vinto il premio Giorgio Scerbanenco 2020 10 febbraio 2021 (modifica il 19 febbraio 2021 | 09:37) © RIPRODUZIONE RISERVATA